Dodici dittici come dodici varchi. Non un racconto lineare, ma un mosaico di specchi in cui il Cosmo e la Terra si riflettono, si confondono, si scontrano. Ogni dittico è una soglia simbolica: da un lato la conquista spaziale, dall’altro la memoria terrestre; sopra il mito tecnologico, sotto il mito quotidiano. In mezzo, l’uomo che cerca sé stesso.












La luce che si spegne e si riaccende nel cosmo incontra la luce che ogni giorno nutre i frutti della terra. È il dramma tra l’eterno e il contingente, tra l’infinito e il pane quotidiano

Due partenze. Il razzo che squarcia il cielo e la culla fragile che custodisce la nascita dell’umanità. Entrambi poggiano sulla sabbia, simbolo di precarietà. È l’inizio duplice: titanico e indifeso.

Due inizi. Il primo passo fuori dal pianeta e il primo respiro di un corpo nudo. L’umanità fragile che si protegge con una pelle artificiale — la tuta spaziale — come seconda nascita, artificiale ma necessaria.

Tracce che vogliono resistere. Il desiderio di lasciare un segno è lo stesso, che sia nel Mare della Tranquillità o sulla spiaggia. È l’urgenza metafisica di non sparire.

Un’immagine fissa, immobile e immortale sulla superficie lunare, contro le onde che tutto cancellano e trasformano. Permanenza e oblio, resistenza e dissoluzione.

Due vessilli piantati: simboli di conquista, possesso, orientamento. Da un lato il gesto politico che dichiara la Luna “occupata”, dall’altro la bandiera che indica al pilota la via per decollare. Entrambe parlano di successo e dominio, ma anche di guida verso la conquista.

Dalla gloria alla scoria. La tecnologia più avanzata e il rifiuto più umile si equivalgono, entrambi abbandonati. La Luna e la Terra si rivelano depositi della stessa incapacità umana di distinguere tra conquista e scarto.

Non più soltanto paesaggi desertici, ma figure che si prolungano, moltiplicate dal sole basso. Le ombre si allungano come tentacoli inconsci, proiezioni dell’animo umano che cerca di oltrepassare i propri limiti. Sono estensioni metafisiche, non corpi: braccia dell’inconscio che tentano di toccare orizzonti più lontani, di conquistare traguardi ancora inesplorati. È il segno che il viaggio nello spazio è, prima di tutto, un viaggio interiore.

Due architetture del dialogo. Sulla Luna, gli apparati che permettono di parlare ai “Terrestri”; sulla Terra, le antenne che collegano uomini e comunità. È il desiderio umano di vincere l'isolamento ed il silenzio cosmico: comunicare, sempre, a tutti i costi.

La navicella come ventre artificiale, che custodisce la vita nel vuoto, è la traslazione tecnica della donna, contenitore naturale del feto. L’uomo ha replicato in tecnologia ciò che la natura aveva già creato. È il mistero dell’utero universale: generare dove non c’è vita possibile.

Il veicolo spaziale all’orizzonte e il fragile paramotore che si stacca dalla riva: due gradi dello stesso sogno atavico. Dal desiderio di volare al compimento di Icaro, l’umanità ha finalmente spezzato i vincoli della gravità.

Due sfere: una piena, vitale, traboccante di sogni e speranze; l’altra vuota, sterile, priva di vita e di futuro. Terra e Luna non sono solo corpi celesti, ma simboli universali di tutto e nulla, vita e assenza, speranza e vuoto.

Apollo non è una celebrazione dell’impresa spaziale, ma una meditazione sulla condizione umana.
Ogni dittico è un varco metafisico: ci mostra che le conquiste tecnologiche non cancellano le fragilità, ma le ripropongono su scala cosmica. L’uomo pianta bandiere sulla Luna come le pianta sulla sabbia; costruisce culle e sonde, impronte e ombre, monumenti e rifiuti. Tutto si riflette, tutto ritorna. Il viaggio fotografico, con la sua natura indicale, diventa qui strumento filosofico. Non documenta, ma interroga. Ogni immagine è segno, e ogni segno rinvia a un enigma: chi siamo, dove stiamo andando, quale segno resterà di noi quando le onde del tempo avranno cancellato tutto.
Il confronto tra Terra e Luna diventa il paradigma di un dualismo eterno:
pienezza e vuoto
vita e morte
origine e fine
fragilità e conquista.
Nell’oscillazione tra questi poli sta la vera essenza dell’umanità: non un “sapiens” compiuto, ma un viandante cosmico che cerca sé stesso negli specchi che costruisce.
Così, Missione Apollo non parla solo della Luna. Parla di noi: creature che, nell’ansia di elevarsi, continuano a ritrovare la propria ombra. Creature che sognano l’infinito, ma portano con sé il peso del finito. Creature che, pur sapendo di non poter sfuggire al nulla, continuano a riempirlo di segni, di bandiere, di immagini, di domande.
In fondo, è questo il miracolo dell’uomo: abitare il tutto, sapendo di essere destinati al nulla.